SUMMER BREEZE 2016 – Il live report

SUMMER BREEZE 2016

Diciannovesima edizione del Summer Breeze Festival tenutosi a Dinkelsbuehl (Baviera – Germania), festival agostano che gli stessi tedeschi sono soliti definire un “Wacken in miniatura”. In effetti in un’area concerti certamente non sterminata sono disseminati ben quattro palchi, di cui i canonici due palchi principali affiancati (il “Main” e il “Pain” stage), un palco situato sotto un tendone per mantenere costante una certa oscurità (il “T-Stage”) e un palco per band meno conosciute e anche qualche band più esperta, ma meno blasonata (il “Camel Stage”).

Da chi cominciare? Proviamo a farlo dalla fine, ovvero dal concerto che ha chiuso il festival, quello dei BATUSHKA, band polacca i cui membri sono anonimi dato che in ogni occasione si presentano totalmente coperti da capo a piedi da cappucci e palandrane nere. C’è chi sostiene che vi sia un certo Nergal dietro al progetto, ma la stazza imponente del frontman dei Batushka è ben visibile nonostante il già descritto e non sembra coincidere con quella del leader dei Behemoth. I Batushka sono latori di un black-doom metal molto potente, profondamente influenzato dalle litanie liturgiche ortodosse e bizantine, da cui tra l’altro traggono i testi, e dai canti gregoriani. Il tutto in lingua russa, circostanza che ha impedito loro di suonare recentemente sia in Russia sia in Bielorussia a causa delle minacce di morte ricevute da gruppi religiosi oltranzisti ortodossi, costringendoli all’annullamento di due date.
L’effetto live è a dir poco clamoroso: le due chitarre a otto corde e il basso a sei hanno assicurato un groove decisamente imponente ed efficace, il tutto supportato da un drumming preciso e incessante e soprattutto dai tre coristi – tra cui probabilmente una donna – che con i loro vocalizzi hanno letteralmente ammutolito il pubblico, sbalordito dall’effetto complessivo di un concerto veramente unico e memorabile. Il tutto, è giusto menzionarlo, senza il minimo campionamento, nemmeno la campanella che introduce Yekteniya 3, terza canzone dell’album intitolato Litourgiya, suonata da uno dei coristi. Quarantacinque minuti di un rituale magico, oscuro, cattivo, potente, misantropico, stupefacente.

Probabilmente, solo un’altra band è stata in grado di reggere il confronto con i polacchi: i finnici MOONSORROW, i quali hanno offerto un’ora di musica di altissima qualità grazie anche alla enorme crescita compositiva dimostrata con il loro ultimo lavoro Jumalten Aika di cui hanno suonato tre dei cinque pezzi totali offerti, chiudendo invece con Sankaritarina.

Cambiando totalmente generi e palchi, è invece d’uopo segnalare positivamente anche le prestazioni di MASTODON, STEEL PANTHER e TESTAMENT.
I primi, per quanto potessero sembrare un po’ avulsi rispetto al mood generale del festival, hanno offerto un’esibizione maiuscola, aprendo le danze con Tread Lightly, opener dell’ultimo album Once More ‘Round The Sun e chiudendo, dopo un’ora e un quarto circa, con la ben nota Blood And Thunder; nel mezzo, i quattro hanno pescato dall’intera loro discografia, tra cui la magnifica Iron Tusk durante la quale tutti i membri della band si sono alternati alla voce.
I californiani STEEL PANTHER, headliner dell’ultima serata sul Main Stage, sono stati accolti da una folla veramente oceanica a dispetto della pioggia battente che ha caratterizzato l’intera durata del concerto, aprendo con la classica Eyes Of A Panther e proseguendo con le loro hit più famose, tra cui meritano menzione Asian Hooker, Gloryhole, 17 Girls In A Row (durante la quale c’è stata la canonica invasione di palco da parte di ragazze diversamente vestite e svestite, ben più di diciassette) e naturalmente Death To All But Metal sul cui contenuto siamo tutti quanti d’accordo. Uno show divertentissimo, condotto da veri animali da palco che sanno interagire col pubblico come pochi altri gruppi, offrendo sketch esilaranti (nonostante la banalità dell’argomento) e soprattutto suonando con una compattezza davvero invidiabile.
Che dire invece dei TESTAMENT? Quando ci si trova davanti Gene Hoglan e Steve DiGiorgio, componenti della sezione ritmica dei Death di Human, Individual Thought Patterns (qui addirittura insieme) e Symbolic, uniti alla personalità di Chuck Billy, unico cantante che passa l’intero concerto a fare air guitar con l’asta del microfono, nonché di Alex Skolnick, è abbastanza improbabile rimanere delusi; la scaletta del concerto è sapientemente pregna di cavalcate classiche come Over The Wall, Practice What You Preach, Into The Pit, The Preacher, The New Order senza dimenticare la bomba D.N.R. dal loro lavoro di rinascita, The Gathering. Un concerto roccioso e privo di sbavature, in perfetto stile Testament con questa formazione di elevatissima qualità tecnica.

Se quindi, Batushka e Moonsorrow possono essere posti sul gradino più alto del podio, Testament, Steel Panther e Mastodon sul gradino dell’argento, veniamo infine alle medaglie di bronzo.
Cominciamo dai SATYRICON, headliner del “Pain Stage” della seconda giornata. I norvegesi rappresentano oggi in modo assolutamente enciclopedico lo sviluppo musicale e d’immagine dell’heavy metal nel suo complesso e non solo del black metal di cui sono (stati) indubbiamente tra i più grandi interpreti. Nella corrente tournée, infatti, Satyr, Frost e turnisti eseguono l’intero Nemesis Divina, capolavoro e pietra angolare del black metal uscito nel 1996 e di cui vengono celebrati i venti anni dall’uscita. Tuttavia, a differenza di vent’anni fa, sul palco non si vedono più chiodi, cinture con pallottole varie, borchie, sangue, armi da punta e taglio, fuoco e animali morti, per dare spazio a un abbigliamento decisamente più sobrio e a trucco molto leggero quasi sfumato.
A riprova del cambiamento non può non essere menzionato un altro elemento e cioè la mela bianca illuminata che svettava da un’apposita piattaforma, sulla quale era installata anche una tastiera. Se la tastiera è ormai uno strumento ampiamente sdoganato nel genere, non è affatto scontato che una band black metal si presenti con un computer in bella vista sul palco, oggi piuttosto caratteristica pressoché costante delle controverse realtà metalcore.
Pur assodato che i Satyricon abbiano ormai abbandonato l’immagine (e il suono) di quegli anni, non dobbiamo dimenticare che si è trattato di un “vintage show” con un messaggio preciso. Quindi il messaggio chiaro che, a nostro avviso, la band ha voluto inviare al proprio pubblico è stato del seguente tenore: “noi non dimentichiamo quello che siamo stati e in parte ce lo portiamo dentro, ma oggi siamo diversi e indietro non intendiamo tornare”.
Anche l’interpretazione dei brani di Nemesis Divina è sembrata decisamente improntata a canoni più moderni. The Dawn Of A New Age, Du Som Hater Gud, Mother North e Immortality Passion sono state suonate più lentamente rispetto alle originali, più riflessive e profonde, arricchite da un suono più ricco di frequenze basse. I mid-tempo invece sono state mantenute ritmicamente fedeli agli originali. Complessivamente un concerto di pregevole fattura. Frost si conferma un batterista di eccellente levatura e soprattutto dallo stile unico e inimitabile, apprezzabilissimo soprattutto su Immortality Passion, canzone ricca di cambi di tempo e di incastri suggestivi.

Completato il podio, ecco in pillole le impressioni su alcuni degli altri concerti.
ABBATH: più libero dalle più strette maglie degli Immortal, il buon Abbath si può permettere qualche gag in più senza tuttavia snaturare l’elemento oscuro (seppur lievemente parodistico) dei suoi show.
AIRBOURNE: molto divertenti e trascinanti dal vivo, ma l’eccessiva somiglianza con i conterranei AC/DC e la complessiva banalità dei loro pezzi rende necessario qualche extra per vivacizzare un po’ la scena. In questo caso, Joel O’Keefe si è spaccato una lattina di birra sulla testa provocando l’uscita a spruzzo del contenuto.
ARCH ENEMY: archiviata ormai la figura di Angela Gossow, Alissa ha indubbiamente ha una voce molto possente ed è tecnicamente dotata, potendo passare da growling a screaming con estrema facilità, il tutto accompagnato da un look cyber-punk. Il pubblico reagisce bene, incentivato dall’energia di Alissa, mentre Michael Amott è rimasto abbastanza sulle sue.
AT THE GATES: siamo di fronte alla storia del death melodico. Ottime le esecuzioni di Slaughter Of The Soul, Under A Serpent Sun, Nausea e Blinded By Fear, brani dal tiro indiscusso; meno coinvolgenti invece le canzoni di At War With Reality.
BLUES PILLS: così come i Mastodon, sono stati la band che meno sembrava “pertinente” al complessivo clima del festival. La bella Elin tuttavia, con i suoi passi di danza in stile Black Widow e con la sua voce davvero fantastica è stata perfettamente in grado di tenere sulla corda un pubblico numeroso.
CARCASS: sempre perfetti, sempre caldi, simpatici e soprattutto violenti. Mai perdersi un loro live quando sono in giro. Corporal Jigsore Quandary e Heartwork sono micidiali. Non serve dire altro.
CATTLE DECAPITATION: nonostante Travis fosse influenzato (come da lui stesso dichiarato durante il concerto), i Cattle Decapitation sono stati le solite macchine da guerra, cantante compreso. Il loro stile purtroppo scoraggia moshpit, circle pit, wall of death, crowdsurfing e altre amenità simili, ma dal vivo sembra sempre di ascoltare il disco. Per pochi intenditori.
CLITEATER: momento più ignorante di tutto il festival, la band grindcore di casa è stata accolta da una nutrita pletora di coccodrilli gonfiabili, spazzoloni del cesso che ho immaginato fossero stati precedentemente usati per il loro scopo originale, gente travestita da Pokemon, mummie, allegri chirurghi, tartarughe ninja, improbabili supereroi inventati e ogni tanto qualche metallaro. Circle pit costante e pigsquealing come se non ci fosse un domani.
D*A*D: il loro concerto, per quanto privo di sbavature, è una lunga agonia in attesa di sentire il loro pezzo più famoso Sleeping My Day Away, arrivato dopo circa cinquanta minuti e infiniti assoli di chitarra e batteria.
GRAND MAGUS: sono loro praticamente ad aprire le danze del festival, essendo la prima band di un certo peso a suonare il mercoledì. Il collegamento con il pubblico diventa immediatamente bollente quando Janne e Mats iniziano a testare i microfoni intonando il coro di Hammer Of The North con contestuale intervento del pubblico. La scaletta prevede qualche brano dall’ultimo album, ma non è un caso se le prime due canzoni del concerto sono I, The Jury e Sword Of The Ocean, visto che l’ultimo Sword Songs non è stato proprio il loro miglior lavoro in studio.
Chiudono con Iron Will e Hammer Of The North, con il pubblico che prosegue a cantare anche oltre l’uscita della band dal palco.
IN THE WOODS: Forse la delusione più cocente di tutto il festival, probabilmente a causa dell’orario – le 2 di notte – non ci ha aiutato a tenere alta l’attenzione per tutto il concerto, ma James Fogarty e compagni sono sembrati decisamente sottotono. La band ha dato l’impressione di mancare di amalgama e di voglia di suonare. Rivedibili.
INSANITY ALERT: combo multinazionale con base in Austria, questi ragazzi si sanno divertire sul palco e scrivere anche canzoni che strizzano non uno ma due occhi agli anni ’80. Difficile prevedere un certo sviluppo dato che il loro genere thrash-hardcore è molto per nostalgici, ma la semi cover Run To The Pit, Mosh For Your Life vale la pena sentirla dal vivo una volta e farsi una bella risata, con scapocciata annessa.
IRON REAGAN: concerto tiratissimo, senza pause e carico di energia. Da segnalare la violentissima cover dei Cannibal Corpse di A Skull Full Of Maggots e la divertentissima Your Kid’s An Asshole. Anche Cycle Of Violence, dal sapore slayeriano, traccia solchi profondi nel cranio degli astanti.
MY DYING BRIDE: un’ottima prestazione dei conterranei dei Paradise Lost, puliti ed efficaci. Da segnalare una possente And My Father Left Forever.
PRIMORDIAL: l’anima irlandese dei Primordial è certamente un elemento che rende particolarmente amabile questa band, che dal vivo è in grado di trasmettere sempre un grandissimo calore al pubblico nonostante la ruvidità del loro genere musicale, di cui sono peraltro degli indiscussi padri fondatori. Suggestive la opener Where Greater Men Have Fallen e la super epica As Rome Burns; magnifica anche No Grave Deep Enough, magnifici loro.
QUEENSRŸCHE: Todd Latorre si rende protagonista di diversi “tagli” sulle parti acute di canzoni irrinunciabili come Jet City Woman, Eyes Of A Stranger, ed Empire, l’augurio è che fosse solo per motivi transitori, un raffreddore o una laringite.
SLAYER: Paul Bostaph è parso parecchio impreciso, rullate fuori tempo, colpi mancati, “rincorse” sulla velocità dei pezzi. Tom Araya impeccabile, Gary Holt diligente, Kerry King forse un po’ stanco, ma sempre sul pezzo.
TRIBULATION: Jonathan Hultèn, leader della band, è un vero artista: disegna personalmente le copertine, le magliette, gli outfit da indossare sul palco, suona benissimo la chitarra e scrive ottime canzoni. Rispetto alle uscite precedenti i ragazzi hanno leggermente appesantito il make-up (soprattutto Jonathan, ma c’era da aspettarselo). Musicalmente sono davvero validi, suonano un’ora per sette canzoni di cui quattro dall’ultima fatica tra cui The Children Of The Night e Melancholia dal vago sapore maideniano. Consigliatissimi.

La prossima edizione sarà la ventesima del festival, l’organizzatore ha già annunciato che sarà speciale e che vi saranno diverse novità; attendiamo impazienti.

Testo e foto: Filippo Contaldo