DESERT FEST – Il live report
Desert Fest London
29 – 30 aprile – 1 maggio 2016
Camden Town (Londra, UK)
di Giulia Mascheroni
Foto di Jessica Lotti
Anche quest’anno è giunto quel periodo in cui Camden viene invasa da orde di capelloni barbuti e la flanella la fa da padrone: Desert Fest.
Anno dopo anno la manifestazione si fa sempre più golosa, con un bill in grado di sfidare realtà ben affermate quali Roadburn o Freak Valley. Proprio a causa di tutte queste ottime band in programma è estremamente difficile riuscire ad avere una visione d’insieme e così è d’obbligo dover prendere delle decisioni, specialmente la domenica, dato che il Koko è situato ad una decina di minuti di distanza rispetto a Electric Ballroom, Underworld e Black Heart.
Il venerdì, considerando la quantità di persone partecipanti, parte un po’ in sordina. Prima band della giornata da citare sono gli Egypt che, con il loro bluesy-doom, varano il palco dell’Electric Ballroom.
Nonostante l’annuncio di una data a Londra il prossimo luglio, l’Underworld è stracolmo per i britannici Raging Speedhorn, che scatenano il caos totale, con una scaletta che include prevalentemente brani dai primi due album e qualche chicca dal loro nuovo lavoro.
Anche sul main stage si vira verso un sound più sludgy con i Crowbar, che sono in tour per celebrare il ventennale di Broken Glass. Un’atmosfera piuttosto festosa pervade la venue, alimentata dall’attitudine genuina e senza fronzoli della band, soprattutto da parte del frontman Kirk Windstein. Decisamente degna di nota la loro cover zeppeliniana di No Quarter.
Finalmente si arriva al pezzo da novanta della giornata, i Corrosion Of Conformity, che letteralmente inceneriscono il palco dell’Electric Ballroom. La recente reunion con Pepper Keenan sicuramente influisce sulla resa compatta della band, la quale avanza come un panzer con una scaletta di grandi classici, tratti in gran parte da Deliverance e Wiseblood. Ben carichi da un secret concert tenutosi la sera precedente a Manchester, i quattro iniziano ad asfaltare i presenti con King Of The Rotten, Broken Man e Heaven’s Not Overflowing una dietro l’altra. Da citare una massiccia versione di Seven Days, seguita da brani più recenti quali Paranoid Opioid e 13 Angels. Pepper annuncia che torneranno sicuramente su suolo europeo il prossimo anno per promuovere il nuovo album in fase di composizione. Si torna indietro nel tempo con il climax della loro performance, Albatross, durante la quale non c’è una persona in grado di rimanere ferma senza cantare a squarciagola. Tempo di bis con dedica a Donald Trump (Vote With A Bullet), The Door e, chiaramente, Clean My Wounds.
Giusto qualche ora di sonno ed è tempo di ricominciare tutto da capo il sabato!
Prima band sulla tabella di marcia sono i londinesi Poseidon, il cui suono dalle tinte epic doom-sludge richiama certamente il regno del dio greco degli abissi. Vista la lunghezza delle composizioni, ci regalano soltanto due brani: The Beginning; The End; The Colony e Prologue: Omega.
Sempre sul palco del Black Heart, il power-trio londinese Dusteroid ci fa tornare su sonorità meno cupe e più à la Kyuss e ci presenta varie tracce dal nuovo album To Fathom Hell.
Uno dei grandi nomi dell’Electric Ballroom sono i Truckfighters che, nonostante un energico show e i salti teatrali di Niklas Källgren, si rivelano forse una delle band più piatte del festival, considerando le performance degli altri gruppi in programma per tutto il weekend. Aprono con Mind Control e successivamente si danno a classici quali Manhattan Project, Chameleon e Desert Cruiser.
Purtroppo non riusciamo a seguire le performance di Pelican e Russian Circles, ma riusciamo ad assistere al concerto-afterparty dei Ten Foot Wizard al Devonshire Arms, i quali riescono a far scoppiare di gente il pub a suon di rock-funk e dosi massicce di autoironia.
La domenica del Desert Fest ha sempre delle tinte malinconiche: più o meno tutti i partecipanti sono in preda a vari stadi di hangover e, al tempo stesso, sono ben consapevoli che entro serata questo microcosmo cesserà di esistere.
Oggi si parte con gli Stinking Lizaveta all’Underworld. La batterista Cheshire Agusta è una forza della natura, capace di catalizzare l’attenzione su di sé costantemente, a suon di urla e fill. Ad accompagnarla l’ottimo chitarrista Yanni Papadopoulos e il bassista Alexi Papadopoulos.
A seguire una delle sorprese regalateci dall’Underworld: gli svedesi Siena Root, che sembra siano appena scesi dal tour bus del film Almost Famous. Lasciato da parte il fascino zeppeliniano che questi cinque bellimbusti emanano, troviamo una band compatta e genuinamente innamorata delle sonorità 70’s. La scaletta attinge a piene mani dal loro ultimo album Pioneers e le loro digressioni strumentali à la Allman Brothers Band mandano in estasi tutti i presenti. Punti di forza del set sono indubbiamente la opener Between The Lights, 7 Years, Spiral Trip e Root Rock Pioneers lasciata come gran finale.
Ci dirigiamo verso il Koko e d’ora in poi non leviamo le tende, data la lontananza e il sovraffollamento generale delle venue. Per questo motivo, purtroppo, non riusciamo a vedere Beastmaker, Mothership, Oranssi Pazuzu e Blood Ceremony.
Il Koko è stracolmo di gente per gli Elder. Il palco è piuttosto scarno, ma le proiezioni psichedeliche la fanno da padrone e i nostri occhi già pregustano cosa accadrà in poche ore con gli headliner. In scaletta troviamo Compendium e Lore dall’ultimo album, un nuovo brano ancora inedito, Dead Roots Stirring, Gemini e The End.
Purtroppo la venue si svuota a causa dell’accavallamento con i Blood Ceremony e non c’è proprio un mare di folla per i Trouble. Apertura perfetta con The Tempter per un set predominato dalla discografia meno recente della band: The Sleeper, At The End Of My Daze, The Wolf e una fedele cover di Supernaut dei Black Sabbath. I bocconi più gustosi vengono lasciati alla fine: Revelation (Life Or Death), R.I.P. e All Is Forgiven.
Il logo degli Electric Wizard fluttua sinistramente sul fondo del palco e partono i primi accordi di I, The Witchfinder. Il loro live è, come sempre, un vero e proprio happening, di cui parte fondamentale sono gli spezzoni di film softcore-horror e a tema biker che scorrono alle loro spalle: questa volta il tutto è amplificato dall’architettura mozzafiato del Koko, che ricorda un teatro d’opera all’italiana un po’ kitsch. Un set bilanciato tra repertorio più e meno nuovo ci permette di gustare brani tra cui Satanic Rites Of Drugula, Dopethrone e Return Trip. Non c’è nemmeno il bisogno dei bis quando per chiudere un festival si suonano brani come Black Mass e Funeralopolis.
Non si fa in tempo a lasciare il Koko e un senso di vuoto e la consapevolezza della fine di piccolo mondo durato tre giorni iniziano a manifestarsi. Desert Fest non è solo un festival, ma un’esperienza a 360 gradi, in cui per tre giorni Camden diventa una sorta di giardino dell’Eden, dove tutti si divertono senza stress, tutti sono cortesi e gioviali (addetti ai lavori compresi) ed esiste un clima di genuina fraternità tra tutti i partecipanti. In attesa del prossimo anno gli organizzatori non ci lasciano a bocca asciutta e sono già in dirittura di arrivo con la preparazione della prima edizione del Desert Fest di Atene (7-8 ottobre 2016) e di quello di Antwerp (14-16 ottobre 2016).