BLACK WINTER FEST 2021 – il nostro live report!
Black Winter Fest 2021
Milano, Legend Club, 4 dicembre 2021
Si è tenuta al Legend Club di Milano, zona Niguarda, la tredicesima edizione del Black Winter Fest, kermesse estrema che, come da tradizione, si svolge a cavallo tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre di ogni anno.
Il festival è stato occasione per portare a Milano band provenienti da ben sei diverse nazioni; oltre all’Italia, naturalmente, dato che il Black Winter Fest lascia sempre una ampia finestra per realtà nazionali emergenti e consolidate, sul palco del Legend si sono alternati XXII Arcana (ITA), Voland (ITA), Almost Dead (USA), Stormcrow (ITA), Impalement (CH), Diabolical (SWE), Belphegor (AUT) e Batushka (POL). Di seguito le nostre impressioni sulle prestazioni di ogni band:
XXII Arcana:
La band emiliano-romagnola/veneta è una new entry nel panorama estremo nazionale, il loro primo disco è uscito pochi mesi fa su Wine and Fog Productions ed è una delle realtà da tenere d’occhio per il futuro; l’onore di aprire le danze al Black Winter Fest è quindi meritato e, va detto, per quanto giovani, i ragazzi non hanno tradito alcuna emozione, anzi, la naturalezza con cui si sono esibiti è stata una bella sorpresa. Peccato per il pubblico non ancora particolarmente folto, ma gli astanti hanno potuto apprezzare una prestazione solida, fatta di una proposta musicale di buon livello. Da seguire.
Voland:
I bergamaschi Voland rappresentano invece una realtà consolidata dell’underground estremo nazionale; i due fondatori Haiwas (alla chitarra) e il cantante Rimmon (nella abituale mise da militare russo) calcano palchi da oltre dieci anni e sanno coinvolgere il pubblico anche quando, vista l’ora, non è ancora numeroso, come sarà invece più tardi. Lo stile sinfonico e marziale dei Voland, unitamente al sapiente mix di cantato in italiano e russo, fa ottima presa sui presenti, che rispondono positivamente alle sollecitazioni di Rimmon, riuscendo a farli cantare persino nella lingua di Tolstoj, previa lezione lampo. La mezz’ora prevista per la loro esibizione scorre veloce e la band viene salutata da lunghi applausi.
Almost Dead:
Quando sono saliti sul palco gli americani Almost Dead, più di qualcuno ha manifestato una certa sorpresa nel notare quattro ragazzoni in pantaloncini corti e scarpe da skateboard; qualche altro sopracciglio si è inoltre alzato quando, coerentemente con il vestiario dei musicisti, è partita una vera e propria offensiva death-core, con riffoni stoppati e batteria cadenzata in luogo delle chitarre a tremolo e del blast-beat. Tuttavia il pubblico, che nel frattempo aveva incrementato di qualche decina di unità la propria consistenza, si è mostrato molto interessato all’offerta musicale del quartetto californiano, che ha infatti ricevuto una risposta decisamente positiva, con la formazione di diversi moshpit fino ad allora ancora non pervenuti. Una buona mezz’ora di digressione dall’atmosfera del Festival; la band ha quasi vent’anni di carriera alle spalle e, nonostante il genere avulso rispetto alla serata, ha picchiato maledettamente e questo ha pagato.
Stormcrow:
Il primo corpsepainting della serata ce lo regalano i nostrani Stormcrow. Il quintetto ci riporta brutalmente – e provvidenzialmente – alle glaciali e tetre atmosfere tipiche del genere di cui sono latori da un paio di decenni; la band ha avuto poche opportunità, per le ben note cause, di portare dal vivo il loro ultimo lavoro “Face the Giant” e quindi quale migliore occasione del Black Winter Fest per sfogarsi con brani come “Through the Eyes of a Beast” e “Nanga Parbat”? L’impatto è notevole, le due chitarre formano un tangibile muro di suono, coadiuvato dalle linee di basso particolarmente riconoscibili; la batteria di Goraat è veloce e potente (anche se sulle parti di blast-beat si è sentito poco il rullante) e la voce di Vastis è sempre acida e lugubre. Una prestazione complessivamente di buon livello a conferma della solidità del combo lombardo.
Impalement:
Non me ne vorranno le band precedenti, ma con l’entrata in scena degli Impalement la serata ha subito una svolta. Il quartetto svizzero ha pubblicato il proprio disco di esordio nel 2020 e lo ha proposto nella sua interezza durante i quaranta minuti a disposizione; la band è composta da musicisti egregi, soprattutto il batterista, un vero e proprio metronomo, preciso, potente e con particolare gusto. La prestazione è di altissimo livello, lo stile degli Impalement è un black-death tagliente, tecnicamente pregevole e connotato da brani che alternano sapientemente momenti furiosi a passaggi più cadenzati e profondi. Molto intense “Within the Court of Rats” e “Satans’ Fire in my Eyes”. Ne sentiremo parlare.
Diabolical:
Non meno apprezzabili sono stati gli svedesi Diabolical, quartetto di lunga esperienza e noto per lo stile ipnotico che ne caratterizza le composizioni; in un Legend ormai vicino alla soglia del sold-out, nei quarantacinque minuti a disposizione la band di Stoccolma ha proposto brani tratti principalmente dal loro ultimo lavoro “Eclipse”, ben accolti da insistiti e incessanti headbanging da parte del pubblico. Il volume molto alto, soprattutto delle chitarre e della batteria, non ha consentito di apprezzare appieno le diverse parti in clean vocal contenute nei brani proposti, ma la parete sonora creata dai Diabolical ha sopperito alla grande alla mancanza di definzione.
Belphegor:
Terminata l’esibizione dei Diabolical giunge il momento dei big; smontata la batteria usata dalle band precedenti, ecco che il palco viene sgomberato dal service per fare posto all’allestimento della sobria scenografia degli austriaci Belphegor. Croci rovesciate di legno praticamente a grandezza naturale, crocefissi a testa in giù a dir poco inflazionati, teschi di capra e altre amenità hanno circondato Helmuth, Serpenth e Molokh per l’ora e un quarto loro riservata. Inutile sottolineare l’accoglienza particolarmente calorosa riservata loro da un Legend Club ormai pieno in ogni ordine di posto e quantomai disposto a riprendersi, con gli interessi, la sana vecchia abitudine del pogo, anche se qualcuno ancora si ritiene più sicuro indossando una mascherina chirurgica. Lo stato di salute della band austriaca si conferma ai massimi livelli, sezione ritmica precisa e inesorabile, voce di Helmuth profonda e maligna, energia erogata senza pause pleonastiche o cali di tensione. La setlist ha offerto brani risalenti come “Lucifer Incestus” e brani più recenti tratti dall’ultimo lavoro “Toten Ritual”; una prestazione di altissimo spessore anche grazie alla capacità del carismatico Helmuth e dei soci di interagire positivamente con il pubblico, stemperando in modo sapiente l’atmosfera davvero lugubre creata ad arte dal combo di Salisburgo.
Batushka:
La serata potrebbe concludersi già degnamente con l’uscita di scena dei Belphegor ma evidentemente gli organizzatori del Black Winter Fest non hanno voluto lasciare nulla al caso; ecco quindi che verso le 23.30, dopo la meticolosa preparazione dell’altare, l’accensione di una cinquantina di candele e la diffusione di un incenso particolarmente acre, si accingono a salire sul palco gli headliner polacchi Batushka, capitanati da Bartłomiej Krysiuk. L’approccio, come noto, è diametralmente opposto rispetto a quello dei Belphegor: i membri della band, composta, oltre al cantante Krysiuk, da due chitarristi, due coristi, un bassista e naturalmente il batterista, si presentano completamente coperti da una lunga tunica nera e totalmente travisati in volto; uniche parti scoperte mani e piedi, a testimonianza dell’attitudine ritualistica marchio di fabbrica dei polacchi. Interazione con il pubblico, manco a dirlo, praticamente nulla; ogni concerto dei Batushka, si sa, è in buona sostanza una messa, con ostensione di testi sacri e immaginette e benedizioni e aspersioni di acqua santa come unico “contatto” con gli astanti, non c’è un rapporto con i fedeli, la comunicazione è unilaterale e, soprattutto, verticale. Diversamente dal passato, tuttavia, la setlist non pesca esclusivamente da un unico album: infatti, se l’EP “Raskol”, uscito nel 2020, è stato suonato nella sua interezza, la band ha proposto anche una intensa “Polunosznica”, probabilmente il brano più riuscito del loro secondo disco “Hospodi”, e ha chiuso con “Yekteniya IV: Milost”, tratta dal primo album “Litourgyia”. Complessivamente una prestazione buona ma non eccelsa, dovuta probabilmente anche dalla manifesta minor qualità dei brani più recenti, che non reggono il confronto con quelli contenuti nell’album di esordio; resta certamente impressa la grande presenza scenica della band e la qualità dei musicisti che ne fanno parte, con particolare riferimento al batterista Paweł Jaroszewicz, sempre impeccabile.
Setlist Batushka:
IRMOS I
IRMOS II
IRMOS III
IRMOS VI
IRMOS V
Polunosznica
Yekteniya IV: Milost’
Liturgiya