METAL PARK – il live report di entrambe le giornate, sabato 6 luglio e domenica 7 luglio 2024

METAL PARK – il live report di entrambe le giornate, sabato 6 luglio e domenica 7 luglio 2024

METAL PARK – IL NOSTRO LIVE REPORT

Parole di Antonino Blesi, Andrea Raffaldini e Filippo Contaldo
Foto di Monica Furiani

Grande sfida organizzativa per questo nuovo festival italiano, in una due giorni suddivisa tra un sabato di hard rock melodico e qualche tentazione heavy/power metal, con lo spettacolo finale di un atteso Bruce Dickinson da solista, e una domenica decisamente più estrema, con la chicca finale del concerto dei redivivi Emperor. Tra meet & greet di band molto attese dai fan, espositori di libri, cd e vinili, l’immancabile merchandising dei gruppi presenti e una location collinare che ha portato una temperatura più fresca del consueto ma anche qualche fastidioso scrocio di pioggia improvviso. In definitiva una scommessa vinta, nella speranza di rivedere il prossimo anno una nuova edizione di questo evento, che per due giorni ha riunito amanti del metal di almeno tre generazioni. Unico vero neo, la cancellazione del concerto dei Moonspell, poche ore prima dello stesso, a causa di cancellazioni dei voli, che prima il secondo giorno di quelli che sarebbero di certo stati tra i protagonisti della domenica “oscura”. (Antonino Blesi)

SABATO 6 LUGLIO

MOONLIGHT HAZE

Ci vogliono attitudine e grande forza per essere la prima band del festival, all’ora di pranzo, con il sole alto, un caldo persistente, e dotati di suoni ancora da calibrare. Con tutti i malus del caso e davanti ancora a un pubblico ridotto di fedelissimi, la band italiana ce la mette tutta per fare una degna figura e celebrare sia la sua presenza in un parterre di grandi gruppi e artisti, che a intrattenere chi ha deciso di essere già attivo sotto il palco. Nonostante tutto, una prova incisiva, che ha portato in alto i vessilli di un metal sinfonico snello ed energico, grazie alla passione scaturita da Chiara Tricarico e compagni. (Antonino Blesi)

TYGERS OF PAN TANG

Per chi scrive, la collocazione di questa band oramai italo/inglese doveva di certo essere almeno avanzata di due/tre posizioni, vista sia la storia del gruppo e i grandi dischi usciti nei primi anni ottanta, ma anche la solida rifondazione che è stata resa possibile grazie alla caparbietà del chitarrista Robb Weir e al talento stellare del nostro Jacopo Melille, regalandoci così altri lavori eccellenti negli ultimi quindici anni. Ricordiamo anche il recente ingresso del talento italico della sei corde Francesco Marras, oltre al solido bassista Huw Holding. Una formazione affiatata che se ne frega di orari e calcoli e sale sul palco con passione ruggente e voglia di infiammare il pubblico, che aumenta di minuto in minuto e sembra gradire alla grande l’hard rock roccioso proposto, tra classici incontestabili e qualche traccia più recente che non sfigura di certo. Melille non si risparmia e trascina i fan fino alla fine di trenta minuti che davvero non bastano per celebrare un gruppo che merita molto di più. (Antonino Blesi)

RHAPSODY OF FIRE

Più che un concerto, assistiamo a una sorta di trailer di cosa potrebbe essere uno spettacolo dei Rhapsody Of Fire, a cui viene concessa solo mezz’ora e per di più, a un orario decisamente poco degno della caratura del gruppo triestino. Purtroppo, risulta inutile cercare di arrovellarsi sul perché sia stata attuata questa scelta, quindi non ci resta che goderci questi cinque brani, in cui il quintetto dà come sempre il meglio di sé, guidato dalla vocalità strabordante e scintillante di Giacomo Voli e da una presenza scenica essenziale ma di gran classe. Si urlano al cielo le melodie gloriose e immediate di I’ll Be Your Hero e dell’unico estratto dall’ultimo album, la poderosa title track Challenge The Wind, mentre il duo finale Dawn Of Victory/Emerald Sword cattura l’entusiasmo di tutto il pubblico, con tanto di Voli che nomina cavalieri due ragazze sul palco, armato della leggendaria spada di smeraldo. Grandi professionisti, come sempre. (Antonino Blesi)

RICHIE KOTZEN

Richie Kotzen è forse la mosca bianca di questo festival, eppure il suo stile e la sua classe gli hanno consentito di far breccia nel cuore dei presenti e di portare a casa un gran bello show. Oltre ad essere un chitarrista sublime, Kotzen primeggia anche dietro al microfono con la sua voce calda ed avvolgente in grado di infondere molto pathos in brani come Losin’ My Mind e War Paint. Pur essendo soltanto in tre, la band sul palco sfodera un suono compatto, rock bluesy, riuscendo a riempire tutto il palcoscenico sonoro senza mai un momento cedimento. L’ex ascia di Poison e Mr. Big continua il suo concerto con grandi pezzi, da Bad Situation, Fear, Love Is Blind fino alla conclusione tra gli applausi del pubblico. Pur non essendo un contesto adattissimo a lui, il buon Richie non ha deluso. Qui non siamo di fronte ad intrattenitori, ad animali da palcoscenico e compagnia bella, uno show semplice ed essenziale dove a parlare è stata la musica. (ANDREA RAFFALDINI)

MICHAEL MONROE

Prima di entrare nel vivo del concerto, lasciate che chi scrive possa spendere due parole di solidarietà per il roadie di Michael Monroe. Il “malcapitato” infatti ha passato l’intero concerto correndo avanti e indietro dal palco per impedire che il cavo del microfono di Monroe di impigliasse da qualche parte a causa dell’esuberanza del cantante finlandese, sempre pronto a saltare, correre, scendere dal palco, arrampicarsi sulla struttura dello stage e chi più ne ha più ne metta. Chiusa questa dovuta parentesi non possiamo che ribadire la potenza di un frontman assoluto, impareggiabile, nato per stare sopra un palco a intrattenere migliaia di persone. La sua energia e capacità di coinvolgere il pubblico ha pochi pari, se la gioca molto bene con un Dee Snider. Le canzoni proposte sono quelle dal sound anni Ottanta che più classico di così non si può.  Dead, Jail Or Rock’n’Roll, I Live Too Fast To Die Young sono manifesti della filosofia di vita di Michael, dirompenti, melodici e dai ritornelli irresistibili. Oltre ai brani solisti non sono mancati richiami ai Demolition 23 (Nothin’s Allright, Hammersmith Palais) e Hanoi Rocks (Malibu Bleach Nightmare). Anche la band ha dimostrato molto carisma on stage, vedi il chitarrista Steve Conte, con i suoi sguardi da piacione (sangue italo-americano non mente) alle bellezze delle prime fila e Sami Yaffa, già compagno di Monroe negli Hanoi Rocks. (ANDREA RAFFALDINI)

STRATOVARIUS

Dopo un concerto dinamitardo come quello di Michael Monroe, per molti risulterebbe difficile salire sul palco e mantenere lo stesso livello di adrenalina. Gli Stratovarius però non si fanno intimidire, ma conquistano subito la folla a suon di bordate power metal. Survive ed il classico Eagleheart scaldano subito il pubblico, la band suona in modo impeccabile e Timo Kotipelto si presenta in ottima forma vocale. I finlandesi hanno scelto una scaletta dove più della metà degli estratti sono classici dell’era Tolkki, mossa che sembra essere molto apprezzata da tutti i presenti. Non ce ne voglia la band, brani come World On Fire o Frozen In time si lasciano apprezzare sia su disco sia dal vivo, ma sono i pezzi immortali, Paradise, Legions, Speed Of Light e l’immancabile Black Diamond a riscuotere più successo e a far cantare i presenti a squarciagola sotto il sole cocente che impietoso non lascia respirare. L’impatto è decisamente vigoroso, la sezione ritmica costruisce un bel muro sonoro che va a braccetto delle melodie intonate da Kotipelto e rese ancor più rotonde dal solito Jens Johansson, una macchina da guerra con le sue tastiere. L’ultimo capitolo dello show spetta ovviamente ad Hunting High And Low, un gran finale perfetto per chiudere il cerchio su un concerto senza imperfezioni e sbavature. Dal vivo gli Stratovarius hanno dimostrato tutta la loro ottima condizione di salute.. (ANDREA RAFFALDINI)

THE DARKNESS

Tra intoppi, pause e ritorni di fiamma, la carriera dei britannici The Darkness va avanti da più di vent’anni, anche se è innegabile che le grandi promesse del loro clamoroso debutto Permission To Land del 2003, non siano poi state successivamente mantenute. Nulla di male per un gruppo che però sembra nato per divertire e rockeggiare, anche nel diluvio improvviso che li accoglie a concerto iniziato da pochi minuti. Justin Hawkins non si sconvolge più di tanto e reagisce con ironia tutta british, riportando energia e calore ad un pubblico decisamente bagnato e provato. Per fortuna, il dio del rock decide di voler bene a tutte le persone presenti e che evidentemente, sta apprezzando quello che ascolta, regalando così una serata più o meno fresca e asciutta. Tra ovvie citazioni degli adorati Queen (data la presenza alla batteria di Rufus Taylor, figlio di Roger, non diventa nemmeno lesa maestà), riff rubati ad Angus Young e altri omaggi ai leggendari Led Zeppelin, si balla al ritmo di canzoni sfacciatamente immediate e guidate dal falsetto oltraggioso di un Justin sempre in buona forma. Compare anche il buon Ritchie Kotzen, che sigla il riff di I Believe In a Thing Called Love, ancora il loro più grande successo dopo ventuno anni, per una scaletta fin troppo fedele al primo disco, da cui attinge ben sette brani. I limiti si percepiscono ma la festa sul palco e sotto, sembra funzionare alla grande. Intrattenimento puro e colorato. (Antonino Blesi)

BRUCE DICKINSON

L’ultima volta che il sottoscritto ha visto Bruce Dickinson in veste solista è stata al Wacken Open air del lontano 2002 ed il cantante inglese si è distinto per uno show di pura adrenalina. Ventidue anni dopo l’air raid siren si ripresenta in buonissima forma (il tempo sembra non passare mai per lui), forte del nuovo The Mandrake Project. La stupenda Accidenth Of Birth apre le danze e mette subito in chiaro che la band non è qui per scherzare, ogni componente si distingue sul palco per carisma ed abilità tecnica. Il tastierista italiano Mistheria, probabilmente gasato dal suonare in patria, è inarrestabile e con la sua Keytar si mette spesso in primo piano cercando di coinvolgere il pubblico. La lunga ed evocativa Afterglow Of Ragnarok creala giusta tensione per i due brani successivi, tra i più belli mai scritti da Dickinson. Chemical Wedding, epica, sinistra e misteriosa, e Tears Of The Dragon, ballata in cui il buon Bruce offre il meglio di sé con una prestazione da pelle d’oca. Addirittura potremmo sbilanciarci dicendo che nemmeno negli ultimi tour con gli Iron Maiden, Bruce abbia tirato fuori così tanti colori con la sua voce, che ricordiamo ha affrontato qualche anno fa una dura battaglia contro un tumore alla lingua. La devastante Darkside Of Acquarius dovrebbe chiudere lo show, ma non possono mancare i bis; si parte con la suggestiva e sognante Navigate the Seas Of The Sun, una power ballad tratta da Tyranny Of Souls, per poi proseguire con la forza del metal di Book Of Thel. Il saluto finale arriva con la melodica The Tower, la band si congeda di fronte ad un numerosissimo pubblico in delirio. Cantanti di razza come Bruce Dickinson sono merce rarissima, a quasi sessantasei anni sfoggiare un tale livello di forma fisica e notale è più unico che raro, pochissimi suoi colleghi possono fare altrettanto. Uno spettacolo memorabile che rimarrà impresso nei nostri ricordi per molti anni a venire. (ANDREA RAFFALDINI)

DOMENICA 7 LUGLIO

MORTUARY DRAPE

La luce del giorno rende difficile alla band italiana di esprimersi adeguatamente, almeno sotto l’aspetto squisitamente scenografico, ma questa è un po’ la “maledizione” di chi fa musica oscura e suona nei festival open air, se non è headliner. Dal punto di vista esecutivo, invece, la band piemontese ha saputo compensare i già menzionati ostacoli naturali, esibendosi con grande energia e potenza. La mezz’ora a disposizione viene sfruttata fino all’ultimo secondo e consegnerà ai presenti (ancora non moltissimi) una prestazione solida, ruvida e old school. (FILIPPO CONTALDO)

FLESHGOD APOCALYPSE

FLESHGOD APOCALYPSE
Esordisce citando Frankenstein Jr. il buon Francesco Paoli, con il suo “potrebbe andare peggio” a commentare l’acquazzone che si è appena abbattuto sull’area concerti poco prima dell’inizio dell’esibizione dei suoi Fleshgod Apocalypse. Da allora, tuttavia, il tempo terrà, fatto salvo qualche breve scroscio dalla portata idrica irrilevante. Venendo alla prestazione della formazione umbra, si assiste all’ennesima dimostrazione di grande compattezza, tecnica e personalità. Il metal sinfonico di cui la band è latrice raggiunge il proprio apice quando è eseguito dal vivo, soprattutto là dove, come nel caso del Metal Park, l’acustica è molto ben curata. Eccellente la performance della soprano Veronica Bordacchini e del metronomo ucraino Eugene Ryabchenko, di cui stupisce la naturalezza e disinvoltura con cui approccia la batteria anche nelle ritmiche più serrate.  (FILIPPO CONTALDO)

DARK TRANQUILLITY

Tocca ai Dark Tranquillity portare sul palco del Metal Park una buona dose di death metal melodico di Goteborg, di cui la band è annoverata tra i padri fondatori. Michael Stanne con il suo solito sorriso stampato sulla faccia si conferma il mattatore di uno show che ci ha regalato una scaletta piena di brani vecchi, meno vecchi e nuovissimi. La band infatti ha proposto più di un estratto dall’imminente disco Endtime Signals, parliamo di Unforgivable o The Last Imagination, singoli che hanno già dato offerto un assaggio della buona qualità di questa release prevista per Settembre. A onor di cronaca, dalle prime file in alcuni momenti la resa sonora della voce di Stanne sembrava un po’ impastata, ma niente di preoccupante, lo spettacolo è proseguito alla grande. Tra le tracce più datate segnaliamo Hours Passed In Exile e Thereln, tutte suonate in modo ineccepibile, con grande impatto. Prima della devastante triade Coroner-Cavalera-Emperor, abbiamo potuto goderci gli ultimi momenti di melodie grazie alla formazione svedese autrice di una performance più che piacevole, ma soprattutto capace di stuzzicare ulteriormente la nostra curiosità sul loro disco in arrivo. (ANDREA RAFFALDINI)

CORONER

CORONER
Il trio svizzero sostituisce Kerry King a seguito dell’inopinato forfait di quest’ultimo. La band non tradisce le aspettative esibendosi in un concerto di forte impatto, pescando a piene mani dai loro album migliori, in particolare dal loro lavoro più riuscito, ovvero Grin e da Mental Vortex, altro riuscitissimo episodio della loro carriera. Sarebbe ingiusto confrontare la performance dei Coroner con quella potenziale di Kerry King, il quale avrebbe potuto fare ricorso anche al repertorio degli Slayer che, detto con il massimo rispetto per gli elvetici, appartiene ad altra categoria; i tre di Zurigo sono stati impeccabili e hanno consegnato al pubblico il proverbiale “muro” di suono, caratteristico del loro stile di thrash tecnico e roccioso che li ha resi una band di culto. (FILIPPO CONTALDO)

CAVALERA

L’esibizione dei fratelli Cavalera è stata il vero evento di questa seconda giornata di concerti, senza con ciò nulla togliere alle altre band che si sono esibite, ma i brasiliani hanno letteralmente conquistato l’arena di Romano D’Ezzelino portandola prepotentemente indietro di quarant’anni e mostrando al mondo cosa significhi avere ancora nelle vene la spontaneità, l’onestà e l’integrità del metal estremo di metà anni ’80. Max e Iggor, accompagnati da Igor Amadeus Cavalera al basso e dal magnifico chitarrista dei Pig Destroyer Travis Stone, dal tocco malefico che ricorda quello di Trey Azaghtoth, hanno dato una lectio magistralis di metallo, autentico e malefico, proponendo brani tratti dai primi lavori Morbid Visions e Bestial Devastation, oltre che da Schizophrenia e da Chaos A.D. A sorprendere soprattutto il grande stato di forma dei due fratelli, con Max che ha ritrovato la voce riscattandosi dalle non eccellenti performance degli ultimi tempi con i Soulfly e con i Cavalera Conspiracy e con Iggor che ha mostrato di avere ancora cuore e fiato per tenere i ritmi serrati dei loro esordi. Un’esibizione che ha mandato letteralmente in visibilio il pubblico, che ha risposto con un pogo diffuso e insistito, indifferente al pantano che si è creato a causa delle precedenti piogge, oltre a un costante crowdsurfing e a vigorosi scapocciamenti che faranno la fortuna dei chiropratici della zona. “Sepultura è Cavalera” dirà Max; come dargli torto? (FILIPPO CONTALDO)

EMPEROR

EMPEROR
Annunciati “in stile Kiss” dal loro roadie, al crepuscolo salgono sul palco gli headline, che aprono con Into The Infinity Of Thoughts celebrano il trentennale dell’uscita di In The Nightside Eclipse, di cui saranno suonati quattro brani compreso l’immancabile Inno a Satana e la magnifica The Majesty of the Nightsky. Con un pubblico ancora esaltato dalla prestazione dei Cavalera, gli Emperor suggellano la serata come la proverbiale ciliegina sulla torta, con la solita prestazione ai limiti della perfezione, che non sorprendeva all’epoca e non sorprende oggi, a oltre dieci anni dalla reunion; massiccio è il ricorso ai brani contenuti nel capolavoro Anthems to the Welkin at Dusk, da cui spiccherà naturalmente With Strength I Burn, ma non mancheranno tre brani da Emperor, IX Equilibrium e Prometheus: The Discipline of Fire & Demise. Pare superfluo specificare che Ihsahn, Samoth e Trym si sono prodotti in una prestazione dalla precisione chirurgica ma, allo stesso tempo, connotata da una potenza e un’energia trascinanti. (FILIPPO CONTALDO)

Filippo Contaldo

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